Intervista a Tiziano Gabrielli – 17 giugno 2005

TIZIANO E PATRIZIA GABRIELLI sono genitori che da diversi anni si impegnano nell’associazionismo con particolare attenzione per l’autismo. Sono i fondatori e l’anima dell’associazione “Genitori in prima linea” con sede a Levico.

In questi ultimi anni in Italia, grazie al lavoro delle associazioni e di tanti professionisti seri e preparati, il ruolo dei genitori di persone con disabilità è stato valorizzato e riconosciuto a pieno titolo nei singoli programmi abilitativi, ancor più se si tratta di autismo.

In che modo sentite di essere i migliori esperti di vostro figlio e come è iniziato il vostro cammino di approfondimento delle sue difficoltà?

Non è solo un sentirsi “esperti” ma quella dei genitori è la condizione ottimale per divenire degli esperti. Si è a contatto con il proprio figlio ventiquattro ore al giorno e si vede bene cosa significhi essere autistico. La rilevanza della clinica in questa sindrome è risaputa sia sotto il profilo diagnostico, sia abilitativo. Coloro che istituzionalmente vengono nominati esperti hanno invece poco a che fare con l’osservazione prolungata ma debbono limitarsi a brevi incontri, a somministrazioni di test che non credo ancora adeguati a cogliere in pieno le reali caratteristiche della problematica (non specifici). Oppure debbono ascoltare racconti e valutarli per come sono fatti. Conoscono i nostri figli per quel problema o per quell’altro e spolverano quotidianamente (si fa per dire) la letteratura di settore, rimanendo bene adesi a quanto già proposto. Raccolgono in campo abilitativo modelli e li propongono ma raramente sono competenti del lavoro sul campo perché altrimenti saprebbero che molto è il fumo e poco l’arrosto di quasi tutte le proposte.

Il problema dei genitori è che divengono esperti di patologia e non di abilitazione. Spesso di patologia in senso medico che ha interessi completamente differenti rispetto a quelli dei genitori e delle persone con una sindrome pervasiva dello sviluppo.

L’abilitazione è un “fai da te” caotico con molte fughe nell’opinabile perché prevale ancora la convinzione che il motore sia diverso da caso a caso (a giustificazione dello spettro di sintomi) mentre è assai più probabile che funzionino tutti nello stesso modo, ma vengano aiutati a non funzionare in tanti modi diversi.

Credo che questa capacità di farsi coinvolgere efficacemente dipenda anche dalle risorse personali di ciascun componente della famiglia. Che cosa si può fare per i genitori che sono meno attrezzati e sono in difficoltà nell’affrontare tematiche che rimangono pur sempre di alta specializzazione psico-educativa?

Si diventa genitori senza patente e a volte si incontrano strade tortuose. Eppure credo che riusciremo a dare presto delle indicazioni di “gestione” del problema così facili e così “NON SPECIALISTICHE” da consentire ad ogni genitore ed operatore a non sentirsi più in difficoltà nell’abilitare. Questo permetterà una inversione di tendenza anche nell’ottenere aiuti dall’esterno per affrontare meglio il peso della continuità dell’impegno da sostenere. Siamo vicini.

Dal vostro pensiero traspare sempre un profondo rispetto per le persone colpite da disabilità, specie se autistica, e si coglie un sentimento di vera partecipazione per lo svantaggio che sperimentano nella vita tutti i giorni. È in questo schierarsi senza riserve dalla loro parte che sentite si giochi gran parte della partita per una migliore integrazione?

Assolutamente no. Il sentimento di rispetto e amore verso queste “particolari” persone non mi fa dimenticare che la passività, l’accettazione supina, impedisce loro di partecipare alla pari a quanto vivo io. L’integrazione è un cammino reciproco (normodotato e disabili) nell’utilizzo utile alla collettività della diversità e non deve diventare un fondamentalismo. E’ chiaro che non è obbligatorio superare il limite (mentale o fisico) ma è obbligatorio tentare (sia per i normodotati che per i disabili). Ogni volta che qualcuno ci impone una “disumanizzazione” ci impedisce di convergere su essa in senso transitivo. Io non voglio che il “contesto” decida se quel paziente è tollerato o no (fenomeno che spinge il problema verso nuove “ghettizzazioni”) ma che ogni contesto sappia come metterlo nella condizione di poter condividere qualcosa insieme.

Tra le tante iniziative, avete ideato il manifesto “Ogni bambino del mondo ha diritto al gioco” che qui riproduciamo. Potete commentarlo per noi?

E’ un modo per dire che si può convergere e costruire un mondo senza sguardi di pietà, menzogne, illusioni, né personagg che per lavoro “custodiscono” la pecora smarrita.

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